IL QUASI NAUFRAGIO DEL DARIEN

Cerchiamo disperatamente il Sud America sfiorando il naufragio durante giorni di navigazione con la moto legata a prua, senz'acqua per lavarci a parte quella che filtra di notte dentro la barca. Questa è la tragicomica traversata dello Stretto di Darien.

  • Il viaggio è durato 2 Giorni
  • Budget speso Da 1.001€ a 1.500€
  • Ho viaggiato In coppia
  • Continenti visitati: America
  • Stati visitati: Colombia
  • Viaggio fatto in inverno
  • Scritto da Claudio Giovenzana il 02/05/2016
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  1. Giorno 1

    IL PASSAGGIO DAL CENTRO AL SUD AMERICA NON È DIVERTENTE SENZA ALMENO UNA TRAGEDIA.

    Ero convinto che anche il secondo giorno di navigazione si sarebbe concluso bene.
    Il primo giorno e la prima notte sono state meravigliose, la barca si è fermata nell'atollo di San Blas, mi sono tuffato e ho nuotato in acque di cristallo, sul fondo si potevano accarezzare stelle marine su una sabbia bianco-celeste piena di lingue di luce tremolanti. Quando mi giravo a pancia in su vedevo la chiglia della barche sospese, forse nel cielo, vicino alle isole che uscivano dall'acqua con le loro teste piene di palme da cocco.

    Una volta riemerso ho guardato fiducioso la moto legata a prua, incellophanata e imbrattata d'olio per non arrivare in Sud America come un vecchio ferro da stiro arrugginito e corroso dalla salsedine. Tutto andava bene.
    Attraversare il Darien Gap in moto è un'impresa difficile, macchiata dalla vergogna di due paesi, uniti geograficamente che con dubbie giustificazioni non hanno mai voluto prendersi l'onere di completare l'opera della Panamericana rendendo transitabile lo stretto. Panama si fregia di aver unito due Oceani con il Canale ma fa silenzio quando si alza il problema di unire due terre contigue con una strada. Sembra che l'unico progetto proposto, ovviamente abrogato subito da referendum, era una vergognosa autostrada a 10 corsie che avrebbe fatto a pezzi la riserva naturale nel quale vivono indigeni e trafficano narcos. Sembra che un'idea di Panamericana, ridotta nelle dimensioni come già esiste ad altre latitudini, rispettosa dell'ecologia e messa in sicurezza dalle forze dell'ordine o dai militari, sia inconcepibile. L'unico tentativo di fornire una soluzione decente e popolare per attraversare lo stretto è stato un traghetto, soppresso immediatamente grazie probabilmente alle lobby di chi controlla il transito a prezzi da filibustiere.

    Le conseguenze per un motoviaggiatore sono che invece di spendere qualche decina di dollari in benzina ne spende un migliaio in barca a vela, è come se venissi forzato a una crociera del Mediterraneo ogni volta che da Milano devi andare a Roma.
    Olga già dorme, ha un contratto con Morfeo che le fa saltare la fila ogni volta che c'è da prendere sonno, io guardo sonnecchiante le pareti della cabina a prua, a forma di triangolo, dove assecondiamo mesti il rollio della barca, ogni tanto finiamo l'uno contro l'altra e ci appiccichiamo come adesivi per via del sudore accumulato grazie all'assenza della doccia per tutti e 5 i giorni di navigazione. Quella è l'unica stanza e ci è stata assegnata con gli onori di casa dal capitano, in barba a chi è arrivato dopo di noi.

    Il nostro piccolo privilegio si trasforma in condanna quando la scialuppa di salvataggio viene appoggiata sopra la botola che fa areare la micro stanza trasformandola in un feretro buio e senza ricambio d'aria.
    Sono salito sulla barca due giorni fa con la sicurezza di un lupo di mare che non ha mai provato una nausea diversa dai quelle del dopo sbornia.
    Poi dopo le prime tre ore di navigazione ad essere agitato come un cocktail, il mio stomaco ha ridimensionato la percezione che avevo di me stesso con il primo spruzzo di protesta. Sono seguite ore che ricorderò con poco affetto, in cui il cervello cerca disperatamente qualcosa che stia fermo, si aggrappa alla visione della linea dell'orizzonte così regolare e certa ma poi viene cancellata dall'incedere del buio ed è la fine. Ho fatto ore a babordo, appoggiato al corrimano con la baldanza di un condannato a morte sulla ghigliottina, vomitando sistematicamente qualche schiuma gastrica residua, mentre mi consolavo guardando nei mulinelli d'acqua intorno alla chiglia il rimestio di plancton fosforescente.

    Mi addormento in un bagno di sudore, rasserenato almeno dal fatto che dopo quel brutto inizio ho sconfitto con un prodigioso adattamento ogni fastidio stomacale.

    Nel profondo della notte sento più forte il rumore dell'acqua che s'infrange sulla chiglia, mi lascio cullare e forse sogno quando un giorno girerò il mondo solcando mari, ma quel rumore, quello sciabordio è così vicino e reale, così forte che sembra dentro la barca...
    Apro gli occhi di colpo e spero di essere in un incubo, vedo ciabatte e borse che fluttuano nella sentina allagata, scosse a destra e manca da onde screziate di nero, probabilmente viscide di olio motore.
    Mi alzo, sgrano gli occhi, è tutto vero, grido al capitano e al suo primo (e unico) marinaio (che mi confesserà di aver imparato a nuotare due settimane prima), per risolvere quel piccolo problema del mare che "entra dentro" quando dovrebbe restare fuori.
    Le pompe per espellere l'acqua non funzionano e dopo poco li osservo incredulo svuotare la sentina con gavette e pentolame della cucina. Sto ancora sognando probabilmente.
    Dopo un'ora e prima che inizi a lasciare il testamento in una bottiglia di vetro da affidare alle acque dove affonderemo vedo il livello di acqua abbassarsi. Sembra che la situazione sia sotto controllo.

    Questo piccolo dettaglio rende i passeggeri abbastanza rancorosi, io non mi lamento perché penso al meraviglioso capitolo di un libro che scriverò solo su questa sequela di sfighe ma qualcun altro alza i toni e lo si può capire sopratutto se si considerano un paio di altre cosucce.

    Eccone alcune: il rifiuto del cuoco (sempre il marinaio) di cucinare una volta su due, la mancanza di doccia frigo pompe e salvagenti, acqua potabile a carico del passeggero, scialuppa di salvataggio bucata, cesso che ritorna al mittente parte degli invii, cane del marinaio che piscia sul ponte, turni di notte fatti da un motorino legato con uno spago al timone invece che dal capitano che fumata la sua canna sviene dinanzi a questo, il marinaio che non fa la guardia ma dorme vicino al bompresso abbracciato al cane secondo lo schema DiCaprio/Winslet.

    Finisce che arriviamo al porto di Cartagena, Colombia, incrostati di sale come coralli, il motore della barca con una clericale fumata bianca si ferma. Habemus grippaggio, probabilmente grazie al fatto di aver perso tutto l'olio nell'allagamento notturno. Arriviamo spinti da un refolo di vento al porto, ci mettiamo sulla scialuppa bucata e imbarcando gli ultimi litri di mare dai Caraibi che ci lambiscono le caviglie mentre pagaiamo, approdiamo finalmente al Sud America.

    Ecco il Nostromo che dopo la sua canna serale sviene affidando fiduciosamente il timone al volere del mare...

  2. Giorno 2

    Il giorno dopo pago qualche scaricatore di porto per portare anche il Guzzi a riva.
    Mi dicono che le moto pesanti sono il loro pane quotidiano, rido quando li vedo issare la moto da tribordo mentre le loro vene si gonfiano come salsicce per lo sforzo, piango quando alcuni di loro ricevono la moto calata dentro una lancia del cazzo che scivola avanti e indietro come un pattino a rotelle.
    Poi tocchiamo terra, agganciamo borse, leghiamo i bagagli e partiamo.
    Ci ferma la polizia.
    Non abbiamo ancora i documenti doganali e un controllo sarebbe fatale ma la faccia disperata che esibisco insieme alla patente trasforma l'agente in un solidale boy scout che si prodiga di indicazioni, agitando le mani come serpenti, per spiegarci come arrivare all'ostello attraverso la rete di stradine del centro di Cartagena.
    Siamo in Colombia, sorrido al pensiero che per diecimila e più chilometri ci saranno solo coste, montagne, deserti, Sierra Nevada, Cordigliera delle Ande. Di sicuro nessuno scherzo acquatico di mezzo, nessun "liquido" da guadare, solo terraferma.

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